Dove va a finire un disturbo alimentare non riconosciuto o mal curato?
Un disturbo alimentare spesso non è solo una problematica inerente al cibo, ma può avere radici profonde, basarsi sulle nostre insicurezze e paure. Per questo deve essere curato e non può assolutamente essere ignorato. I disturbi alimentari, da una semplice mancanza o un eccesso di appetito, posso modificarsi in qualcosa di oscuro e pesante, che solo la nostra volontà e l’aiuto di un professionista ci può aiutare a scrollarci di dosso.
Dove va a finire un disturbo alimentare non riconosciuto o mal curato?
Si trasforma, modifica se stesso e il soggetto che ne soffre, si insinua nel suo carattere e nel suo modo di relazionarsi agli altri e al mondo. Se non curato un disturbo alimentare è in grado di manipolare, imbrigliare e influenzare negativamente chi lo cela nel proprio corpo… ma non sparisce.
Di un disturbo alimentare si può guarire -si può morire- ma di un disturbo alimentare si può anche vivere!
Ma come?
È sempre più frequente, nello svolgimento della mia professione, di incontrare persone in età adulta che vivono una relazione patologica con il cibo o, per meglio dire, con un disturbo alimentare da moltissimi anni che nel tempo ha cambiato espressione e ha trovato un suo ruolo e un suo posto nella vita quotidiana del soggetto che ne soffre.
Atteggiamenti definiti superficialmente “strani” o “ pignoli, quasi esagerati” in fatto di cibo, come l’essere perennemente “a dieta” anche quando non sarebbe necessario, non mostrarsi coerenti e realistici alle proprie condizioni fisico-ponderali, catastrofizzare sempre la propria condizione fisica ingiustamente, sono solo alcuni dei comportamenti più comuni che poggiano le basi in un disordine alimentare comparso in giovane età. Solo l’orecchio attento del Professionista preparato può accorgersi che comportamenti e atteggiamenti apparentemente normali si nutrono di paure, difficoltà, malesseri che un tempo avrebbero permesso di fare diagnosi di disturbo del comportamento alimentare.
Questa è una realtà tragica e molto dolorosa che merita attenzione sia da parte di chi si occupa di cibo (di qui il danno enorme commesso da chi avvalendosi di una preparazione superficiale o inadeguata si occupa di dietologia e alimentazione), sia da parte di chi sa convivere con un comportamento alimentare patologico, ma senza fare molto per guarire!
Dopo molti anni di esperienza e molti corsi di perfezionamento e aggiornamento sui disordini alimentari, intravedere una sofferente relazione col cibo da parte del mio interlocutore è piuttosto facile.
Il paziente (molto spesso donna ma non sono esentati neppure gli uomini) giunge alla mia attenzione per il solito motivo: perdere peso, migliorare la propria alimentazione.
Nulla fa pensare a una sofferenza diversa, più intensa, più nascosta, più profonda, eppure è molto spesso evidente che non si sta parlando solo di cibo.
La mia fatica professionale spesso è quella di convincere la paziente a fare un percorso terapeutico diverso dal consueto, è venuta per fare l’ennesima dieta, per farsi dire per l’ennesima volta cosa potrà o non mangiare, ma ciò che le viene proposto è un qualcosa di molto diverso che sa di accoglimento, condivisione, comprensione autentica, rivisitazione dei comportamenti, dei pensieri, delle dinamiche che sottendono il comportamento disfunzionale che nessuna -e ripeto nessuna- dieta potrà mai rimuovere, modificare o curare.
Molte volte sentirsi compresa e affettuosamente alleggerita del peso del segreto celato da anni induce la paziente a intraprendere un percorso che può davvero dirsi terapeutico, altre volte invece la paziente sparisce forse impaurita che il castello di carte su cui ha basato la sua esistenza cada.
Ma nulla può essere così doloroso e pauroso come la consapevolezza di vivere a metà e di continuare a mentire, a nascondersi, a temere di essere “scoperta” quando si ripone la maschera in un momento di particolare stanchezza.